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La rivalutazione degli immobili ecclesiastici

Lug 22, 2020 | Osservatorio News

Nell’ultimo periodo la comunità laica si pone sempre più spesso il problema di come riportare a nuova vita le strutture ecclesiastiche rimaste inutilizzate col calo delle vocazioni. Una questione non da poco, se si vuole mantenere intatto lo scopo per le quale erano state edificate, ovvero il bene della comunità senza scopo di lucro. Le organizzazioni non profit potrebbero rappresentare una soluzione.

 

Il calo delle vocazioni ormai è un trend che persiste tristemente. Negli ultimi anni, infatti, la media di conventi chiusi si mantiene stabile intorno ai 25-30 mensili, un numero che, se non variasse, porterebbe alla loro estinzione entro il 2050. Ovviamente non è un rischio reale, ma il calo è netto e non accenna a scemare.
Il numero dei nuovi fedeli, preti e consacrati della Chiesa Cattolica italiana è in constante diminuzione, e ciò porta a un fenomeno un tempo impensabile su così larga scala, ovvero il disuso e l’incuria degli immobili di proprietà della Chiesa.
Un problema che non coinvolge solo chiese e conventi, comunque per la maggioranza sempre abitati, ma strutture che nascevano per la comunità e che adesso non hanno chi li gestisca. Un esempio concreto viene pensando alle attività caritative, curate un tempo dalle suore ma che, col loro numero in costante riduzione (dal 1975 a oggi il calo è stato del 40%, da quasi 150000 religiose alle attuali 80000), ora in cerca di chi le gestisca attivamente.
Anche i conventi più isolati, che un tempo vantavano una funzione di inclusione sociale per persone meno abbienti e stranieri che si volevano integrare, hanno nel tempo visto chiusure, lasciando le loro comunità senza quei servizi di aggregazione e socializzazione e disperdendo anche un evidente valore artistico e culturale, di storia secolare.

 

In caso di immobile ecclesiastico inutilizzato la gestione continua ad essere dell’ente che ne ha la proprietà. Gli immobili ecclesiastici infatti, per quanto riguarda il territorio italiano, non sono di proprietà del Vaticano ma fanno capo a uno dei quasi 30.000 enti ecclesiastici, che vantano il riconoscimento civile da parte dello stato. Un numero pari a 3 volte gli enti pubblici italiani (escluse scuole e ASL), nel quale sono compresi oltre 25.000 parrocchie, 226 diocesi, svariati istituti religiosi, tutti possibili proprietari degli immobili della Chiesa. Essi sono beni mixti fori, ovvero sottoposti a più tipi di leggi e legislatori, quindi ne sono responsabili in primis la Chiesa e il suo codice di diritto canonico, e lo stato italiano che, nei tempi, hanno redatto una normativa pattizia tra loro per gestirli. La differenza più rilevante nelle diverse legislazioni sta nel fatto che per il CIC gli immobili ecclesiastici sono di proprietà di enti pubblici della Chiesa (parrocchie, istituti religiosi etc.), e quindi sottoposti alla suprema autorità del Papa, mentre stando al diritto civile italiano gli immobili ecclesiastici sono di proprietà di persone giuridiche private e perciò governati dal vigente diritto privato (gli immobili di proprietà di enti ecclesiastici non godono quindi di particolari privilegi, vedi l’IMU). Una differenza sostanziale che porta il soggetto proprietario a gestire come bene pubblico – secondo la Chiesa – ciò che per il diritto civile è invece un bene privato.

 

Perciò come comportarsi coi beni in disuso? Il diritto canonico scoraggia ma ammette la loro vendita, anche per evitare la scelta di dubbio valore etico che porterebbe a lasciarli inutilizzati. Non sorprende, quindi, che col tempo sempre più enti abbiano deciso di provare a valorizzare gli edifici dandoli in usufrutto ad attività con scopo sociale.

Chiamata da Papa Francesco a “uscire dal proprio recinto”, la Chiesa italiana si è sentita in dovere di sfruttare l’eccedenza del proprio patrimonio immobiliare in modo tale da dar vita a servizi innovativi, in collaborazione con enti del terzo settore, che così generano bene comune, tramite i servizi offerti, e aiutano alla creazione di nuovi posti lavorativi.

 

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